Creepypasta – Pixel Mortali

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Il sudore mi imperlava la fronte, le dita irrigidite sulla tastiera. Fuori, il vento ululava come un banshee digitale, sbattendo le persiane della mia stanza. Dentro, lo schermo del computer proiettava la tetra immagine di “Silent Hill: Echoes of Despair”, il gioco horror che mi aveva stregato e terrorizzato per settimane.

Ero arrivato all’ospedale Brookhaven, un luogo di indicibile sofferenza e oscuri segreti. I corridoi fatiscenti si estendevano davanti a me, illuminati fiocamente da luci stroboscopiche che proiettavano ombre danzanti, simili a spettri in agguato. Il silenzio era rotto solo dai miei passi virtuali e da un lontano gemito che mi faceva accapponare la pelle.

Improvvisamente, lo schermo tremò. Un glitch, pensai, uno dei tanti bug che infestavano le versioni non ufficiali del gioco che scaricavo avidamente da forum oscuri. Ma questo era diverso. Non era un errore grafico, ma qualcosa di più… organico.

Una figura si materializzò nell’angolo dello schermo. Non era un modello poligonale predefinito, non uno dei mostri contorti che popolavano Silent Hill. Era una sagoma indistinta, avvolta nell’ombra, ma percepivo una presenza, un’intelligenza malevola che mi fissava attraverso il monitor.

Un messaggio apparve in basso, con un font distorto e sanguinante: “Sei solo, vero?”.

Il cuore mi balzò in gola. Come faceva il gioco a saperlo? Ero solo in casa, i miei genitori erano fuori città. Un brivido gelido mi percorse la schiena.

Digitai freneticamente sulla tastiera, cercando di chiudere il gioco, ma non rispondeva. Il cursore era bloccato, immobile come un insetto intrappolato nella tela di un ragno.

La figura nell’angolo si mosse lentamente, avvicinandosi. Riuscii a distinguere vagamente dei lineamenti, occhi vuoti e profondi che sembravano scrutare direttamente nella mia anima.

Un altro messaggio apparve: “Ti osserviamo da tempo”.

Il panico mi assalì. Era solo un gioco, mi ripetevo, solo codice e pixel. Ma la sensazione opprimente di essere osservato, giudicato, era insopportabile.

Lo schermo iniziò a vibrare violentemente. Un suono stridulo, come unghie che graffiano una lavagna, riempì la stanza. Dalle casse del computer provenivano sussurri indistinti, voci sovrapposte che sembravano provenire da un altro mondo.

La figura si fece più nitida. Ora potevo distinguere un volto pallido, emaciato, con un sorriso sottile e inquietante. I suoi occhi brillavano di una luce sinistra.

“Vieni a giocare con noi”, recitò una voce profonda e cavernosa, che sembrava provenire direttamente dalla mia testa.

Sentii una pressione sul petto, come se qualcosa di invisibile mi stesse schiacciando. L’aria nella stanza si fece gelida, portando con sé un odore acre di carne in decomposizione.

Guardai le mie mani sulla tastiera. Stavano diventando traslucide, quasi eteree. Il confine tra il mio mondo e quello digitale si stava assottigliando, pericolosamente.

Cercai di alzarmi dalla sedia, ma le mie gambe erano paralizzate. Ero intrappolato, risucchiato nel terrore che avevo cercato nel gioco.

La figura nello schermo tese una mano scheletrica verso di me. Le dita erano lunghe e affusolate, le unghie nere e appuntite.

“Sei il prossimo”, sussurrò la voce, ora più vicina, più reale.

Lo schermo si fece nero. Un silenzio tombale calò nella stanza, rotto solo dal mio respiro affannoso.

Rimasi immobile per un tempo indefinito, il cuore che batteva all’impazzata. Poi, con un tremito, portai la mano al pulsante di accensione del computer e lo spensi di scatto.

Lo schermo spento rifletteva il mio volto pallido e terrorizzato. Ma per un istante, giurai di aver visto un’ombra fugace muoversi al suo interno, un sorriso appena accennato svanire nel nulla.

Da quella notte, non ho più toccato un videogioco horror. E ancora oggi, quando il vento ulula e le ombre danzano nella mia stanza, non posso fare a meno di chiedermi se quella figura sia ancora lì, da qualche parte nel codice, in attesa di un altro giocatore solitario. E se, magari, stia ancora osservando.

Giuseppe Gallo

Giuseppe Gallo

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