Le tracce della vita del popolo nativo degli Ainu, residente nell’isola giapponese dell’Hokkaido, rivivono nel riallestimento della sala dedicata alla collezione di Fosco Maraini, all’interno del Museo di Antropologia ed Etnologia del Sistema museale dell’Ateneo fiorentino (Sma).
La presentazione dell’esposizione è avvenuta oggi – in occasione dei vent’anni dalla morte dell’antropologo, fotografo e docente Unifi in Lingua e letteratura giapponese – nella sede di Palazzo Nonfinito alla presenza della rettrice Alessandra Petrucci, del presidente dello Sma Marco Benvenuti, e della curatrice del Museo Maria Gloria Roselli.
La Sala 5, valorizzata da una nuova illuminazione delle vetrine, sarà ulteriormente arricchita da reperti della collezione donata da Maraini al museo nel 1948, testimonianze dell’esistenza degli Ainu, popolo perseguitato, profondamente legato alla natura e ai culti politeisti, fra cui quello dell’orso, rappresentazione della divinità delle montagne. Nella collezione si segnalano i preziosi kimono, chiamati “attush”, o i rituali bastoncini di legno, portatori di messaggi al mondo delle divinità, oltre a collane e oggetti di uso come portasciabole o faretre per frecce.
Nel corso dell’iniziativa, inserita nelle celebrazioni del Centenario dell’Università di Firenze, è stata ricordata la figura di Maraini, attraverso la testimonianza della moglie dello studioso Mieko Namiki, e gli interventi dello storico Franco Cardini e di Maria Gloria Roselli, una delle curatrici del Museo.
Nato a Firenze nel 1912, italo-inglese fin dalla nascita, Fosco Maraini ebbe un legame profondo con la città di Firenze e l’Ateneo, di cui fu prima studente di Scienze Naturali e, in seguito, docente. Alla fine degli anni ’30, va in Giappone con una borsa di studio presso l’Università Imperiale dell’Hokkaido a Sapporo. In Hokkaido viene a contatto con la vita degli Ainu, documentata dalle sue fotografie e dalle sue collezioni di oggetti. Spostatosi a Kyoto come lettore di lingua italiana all’Università locale, dal 1943 al 1945 è internato con la famiglia (fra cui la primogenita Dacia, poi famosa scrittrice) in un campo di concentramento a Nagoya per essersi rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò, dopo l’armistizio. Durante la prigionia compie un gesto d’alto significato simbolico per la cultura giapponese: alla presenza dei comandanti del campo di concentramento si taglia l’ultima falange del mignolo della mano sinistra con una scure, gettandola sanguinante sui carcerieri. Un gesto di tal genere obbligava il “nemico” a prendersi carico della situazione, che in effetti migliorò.
Dopo la fine della guerra recuperò le sue collezioni di reperti etnografici relativi agli Ainu, che erano state nascoste presso gli scantinati dell’Istituto Francese di Kyoto, e le donò al Museo dell’Ateneo.