Jack nella vita è un serial killer. Ma Jack è anche un ingegnere che voleva fare l’architetto. Jack vuole costruirsi la casa dei sogni. Jack, come la sua casa, è sempre incompleto.
Jack (Matt Dillon) racconta la sua vita da pluriomicida a Virgilio (Bruno Ganz) attraverso cinque “incidenti” dove la morte, la violenza, la brutalità, diventano arte e redenzione. La morte come catarsi per sentirsi vivi, la volontà di essere fermato perché, sì, Jack è ancora quel bambino che, quando gioca a nascondino, lascia dietro di se la scia per farsi trovare. Ma nessuno riesce a trovarlo. Perché è così che va il mondo, è così che va la vita. Virgilio si chiede perché tutte le persone che Jack ha incontrato fossero così stupide e ingenue, forse perché, dice Jack, il modo migliore per nascondersi è non nascondersi affatto.
Il lungo cammino di Jack verso l’inferno dantesco attraverso l’inferno della vita corporea, un inferno del tutto personale. Una complessa analisi del genere umano nella sua essenza pulsionale e ferina. Con citazioni al mondo della musica dal Bach di Glenn Gould a “Fame” di David Bowie a Wagner, il viaggio di Jack non ha mai fine perché Jack è la realizzazione pura e concreta dell’istinto pulsionale dell’uomo. L’uomo che non ha più empatia e non ha più morale, metafora e critica della “società civile” di cui l’essere umano si va fregiando come araldo di apparente e superficiale superiorità.
Jack prende e sconvolge le consuete regole morali in cui l’uomo si nasconde per pulirsi la coscienza e le capovolge rendendo esplicito ciò che generalmente l’uomo tende a tenere nascosto. C’è una tigre dentro ogni agnello (prendendo come spunto William Blake) e il negativo della luce è la luce oscura, che noi non vediamo ma è sempre presente.
Questa è l’ultima fatica del genio di Lars Von Trier, un capolavoro ipnotico e disturbante, un viaggio nelle “budella” delle emozioni e dell’istinto.
Fabrizio Gallo
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